A chi appartiene un’opera d’arte una volta che essa viene condivisa con il mondo? All’autore che l’ha concepita e realizzata, o a chi ne usufruisce caricandola delle sue proprie interpretazioni? Sono queste le domande che ci si pone davanti all’opera di Angelo Rossi.
C’è chi ha detto che, osservandone le opere, verrebbe da pensare non siano tutte frutto della stessa mano, ma piuttosto opere di più autori riunite in una collettiva. In effetti, a leggere il manifesto dell’artista, è chiaro che tutto il suo percorso nel mondo e nell’arte è improntato a un’osservazione della realtà che è fatta soprattutto di rielaborazione. Rossi dice del nostro mondo:
“In quest’epoca l’apparenza e la produttività consumistica hanno quasi privato l’uomo delle sue facoltà fisiche intellettuali e spirituali. L’essere umano scompare e restano gli “oggetti“ che egli riesce a generare, a muovere e a comprare. Le vite di ognuno di noi non sono fondamentalmente diverse tra loro e tanto meno sono diverse e scollegate dall’ambiente che ci circonda. Ogni parte del nostro corpo contiene il codice genetico dell’intero organismo e ogni vita include tutto l’universo”.
A questo proposito conclude con una riflessione su come ogni individuo sia in realtà il frutto del suo vissuto, che è l’insieme di tutti gli influssi esterni a se stesso:
“La nostra personalità è un insieme di tutto ciò che ci circonda. Tutto quello che abbiamo proviene dal nostro rapporto con l’esterno”.
Leggi anche: INVESTIRE SULL’ARTE NELL’ERA DIGITALE, ECCO PERCHÉ È LA SCELTA GIUSTA
La rielaborazione come nuova linfa vitale
In effetti, a osservare da vicino le opere di Angelo Rossi, si possono cogliere un’infinità di rimandi e richiami. Circa un secolo fa i Dadaisti si proponevano di capovolgere il significato di opera d’arte dissacrando quello che era considerato canonico. Forse ispirato da questo recupero della realtà quotidiana come mezzo di produzione artistica, Rossi prova a mettere sotto i riflettori ogni cosa e ogni persona. Per farlo ricorre a gesti quasi estremi per un professionista del settore: si libera dei suoi diritti di autore nel 1999, donando completamente al mondo la sua produzione. Da qui la domanda con cui abbiamo aperto questa riflessione: a chi appartiene l’opera d’arte?
Leggi anche: MASSIMO ANTONELLI: LA CAPACITÀ DI COLORARE LA TRISTEZZA
“Penso sia impossibile realizzare opere originali: sarebbero prive di storia ed è impossibile realizzare opere uguali. Ogni oggetto ha una propria vita. Neanche l’identico può essere privo d’identità”.
È così che Rossi spiega la sua posizione e la mette in pratica nella sua opera, che scorre come un ininterrotto flusso di citazioni: dal mondo moderno, alla società attuale, agli altri protagonisti della scena artistica. Rossi, infatti, non sembra farsi problemi a dare visibilità ad altri autori più o meno affermati, rielaborando le loro opere secondo la sua personale visione e in questo modo arricchendo la scena contemporanea sia con la sua arte che con la loro. Così le voci dei vari artisti si sovrappongono come un coro che crea ad ogni battuta nuove armonie.
Muovendosi senza problemi tra pittura, fotografia e scultura, Rossi scompone e ricompone la materia del reale per darle nuova vita. Nonostante si sia liberato – per così dire – della sua identità d’autore, il suo reinterpretare non fa altro che aggiungere emozioni e prospettive a quanto già esiste, creando un qualcosa di completamente nuovo, perché in fondo di ogni cosa esistono più sfaccettature. Del resto, questo gusto della rielaborazione come nuova linfa vitale non è insolito nel mondo delle arti: la musica jazz ne è un esempio lampante.
È davvero possibile, quindi, creare partendo da un’idea già espressa? L’arte nasce dall’arte, si diceva in passato. E Rossi non fa che dimostrarlo.